American Underdog, la recensione

Approfittando di una trasferta in autobus con poco più di tre ore da far passare, ne abbiamo approfittato per vedere (finalmente) American Underdog, il film sulla storia di Kurt Warner che aspettava placido sul nostro hard disk da un paio di mesi di essere visionato. Prima di cominciare dobbiamo confessare la nostra partigianeria. Quella di Kurt Warner è una delle storie più belle che la NFL ed il mondo dello sport in generale ci abbiano mai regalato, ed averla vissuta in presa diretta, da tifosi della sua squadra, la rende ancor più epica e, allo stesso tempo, rende meno “super partes” le nostre considerazioni.

Il film è sembrato ben diretto, discretamente recitato, con una buona cura dei dettagli al punto da cercare attori il iù possibile somiglianti ai protagonisti reali.

Si parte da lontano, dalla High School e dal College, dove Kurt fatica non poco a ritagliarsi uno spazio. Vengono enfatizzati alcuni particolari che lo aiuteranno a diventare il tipo di quarterback che è stato in carriera: il classico pocket passer con un rilascio fulmineo e poca predisposizione per le iniziative personali.

Quasi subito viene introdotto anche il secondo filone della storia, intimamente legato al primo e non meno importante nello sviluppo della sua vita e della sua carriera: la relazione con Brenda e con i suoi due figli, di cui uno con un deficit abbastanza importante.

La storia diventa subito quella di un uomo che incontra un ostacolo dopo l’altro nella propria vita, dal pessimo rapporto con il padre alle difficoltà di far accettare alla madre il rapporto con una donna divorziata e con due figli piccoli, il difficile cammino verso l’elite del football mondiale. Un cammino, quest’ultimo, pieno di bastonate, alcune persin gratuite. Ad ogni bastonata, anzichè piegarsi, Kurt si rialza, abbattuto nel morale ma non nello spirito. Nonostante i successi al college, quando finalmente riesce a convincere il coach a farlo giocare dopo aver imparato a suon di colpi a non uscire dalla tasca ed a scaricare il pallone in un millisecondo, il draft passa senza che venga chiamato il suo nome.

Poi arrivano i Green Bay Packers ed un coach che non gli lascia la minima possibilità di competere (anche se qui la storia viene un po’ enfatizzata, perchè Warner giocò comunque qualche down in preseason).

A Warner non resta che andare a fare il magazziniere in un supermercato, ed un primo tentativo di portarlo in Arena League da parte di Jim Foster viene rifiutato.

Messo alle strette dalla situazione familiare, Warner deve accettare anche l’Arena League, e lì costruisce la sua fortuna, perchè sviluppa ancor di più quelle abilità che lo renderanno grande di lì a qualche anno.

Arriva la chiamata dei Rams e di coach Vermeil e, finalmente, arriva anche un aiuto dalla buona sorte, per una volta, sotto foema di infortunio a Trent Green, il quarterback titolare dei Rams nel 1999.

Da lì è storia. Anzi: leggenda. Super Bowl Champion, NFL MVP, la copertina di Sports Illustrated, la fama, la gloria.

Ecco… e qui arriva una piccola delusione. È vero che il film è incentrato sulal parabola di un uomo che insegue caparbiamente il successo e lo ottiene, ma la vita di Warner incontrerà altri ostacoli, altre bastonate, e tutto quest nel film non c’è Si finisce con la vittoria nel Super Bowl XXXIVe tutti a casa. Trovo che la decisione di interrompere la storia renda il racconto monco, non finito. Certo, chi non conosce la storia successiva è soddisfatto, il bene ha vinto ancora una volta, e vissero tutti felici e contenti. Finchè non vissero tutti felici e contenti.

Tornando al film, comunque, è stato decisamente apprezzabile il ritratto di Dick Vermeil, un coach con una umanità senza eguali in un mondo di sciacalli e pescecani, Mike Martz compreso. All’inizio viene presentato come scorbutico, scostante, uno che non vuol dare nemmeno un centesimo di speranza a Warner, per poi salvarsi in corner con la trasformazione in “lo facevo solo per stimolarti”. Come se ne avesse bisogno, con tutto quello che aveva passato.

Ecco, il rapporto con Mike Martz sarebbe stata una cosa da approfondire maggiormente, ma necessitava di un secondo capitolo ed altre due ore di film.

In definitiva, comunque, un bel film. Sicuramente non un capolavoro da oscar, indubbiamente, ma abbastanza godibile anche er chi non è appassionato di football. La classica storia americana, insomma, con il lieto fine che tutti si attendono.

Solo che, questa volta, è tutto tremendamente vero.

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