Aaron Donald, la leggenda si ritira

Siamo a Los Angeles, SoFi Stadium, il Super Bowl LVI volge al termine dopo che Cooper Kupp ha portato in vantaggio i Rams. Mancano 48 secondi alla fine e i Bengals giocano un terzo ed uno dalle 49 offensive, Porta la palla Samaje Perine, ma sulla sua strada si trova Aaron Donald, che lo ferma sulla linea di scrimmage. Quarto ed una, i Bengals chiamano time out a 43 secondi dalla fine. L’attacco si schiera, sulla sideline di Los Angeles, l’head coach Sean McVay si appoggia sulle ginocchia ed al microfono che lo mette in contatto con gli altri coach dice sicuro “Aaron sta per fare una delle sue giocate”.
Joe Burrow prende lo snap, Aaron Donald supera con disarmante facilità il doppio blocco di Spain e Williams e si avventa su Joe Burrow come un leone che piomba sulla sua preda. Lo abbranca, lo gira, lo mette a terra mentre Burrow tenta un disperato lancio verso Perine che cadrà incompleto. Poi si alza, inizia a correre ed urlare come un forsennato. Si toglie il casco, alza la mano sinistra e comincia ad indicare il dito anulare. Il suo sack ha messo fine alla partita ed ha portato il titolo a casa per i suoi Rams.

Questa è l’immagine che ogni tifoso dei Rams (ma anche gli spettatori neutrali) ha più impressa della carriera di Aaron Donald: il raggiungimento dell’apice dopo anni di dominio, prima in una squadra mediocre, poi in una dalle mille potenzialità ed infine in quella costruita appositamente per vincere. E lui, Aaron Donald, numero 99 da Pittsburgh, è probabilmente l’emblema principale di questa squadra, di questo trionfo, di una carriera vissuta sempre al vertice.

I Quarterback avversari, invece, avranno come immagine scolpita nella memoria il momento in cui il numero 99 si è abbattuto su di loro, a partire da Russell Wilson, di gran lunga il quarterback più “abusato” da Donald.

Snoccioliamo i freddi numeri: 10 anni di carriera, 10 Pro Bowl, 8 All-Pro, 3 Defensive Player of the Year, 1 Defensive Rookie of the Year, 1 Super Bowl. Questi numeri dicono tanto, possono dire quasi tutto, ma non mostrano nemmeno lontanamente cosa è stato Aaron Donald per i Rams, ma anche per tutta la NFL.

A Los Angeles è passato uno dei migliori defensive end che la storia dello sferoide prolato ricordi: David “Deacon” Jones, colui che ha inventato e perfezionato l’headslap (colpo oggi bandito), colui il quale ha portato alla creazione del termine “sack”. Ora, accanto alla maglia numero 75 di Jones, c’è quella numero 99 di Aaron Donald, senza ombra di dubbio uno dei migliori defensive tackle della storia, colui che ha ridefinito il ruolo di defensive tackle, ne ha dato dignità, fama e gloria e, perchè no, ha contribuito ad alzarne il salario minimo.

Fisico sovrumano, seppur leggermente sottodimensionato per un defensive lineman, caratteristica che lo fece scendere fino alla tredicesima scelta assoluta, con gli stessi Rams che preferirono scegliere l’offensive tackle Greg Robinson prima di lui con la scelta numero due (uno dei bust più clamorosi della storia del draft, per i Rams), Aaron Donald ha costruito il giocatore che abbiamo potuto ammirare per dieci stagioni con la palestra, l’allenamento costante, la dedizione assoluta, le tecniche di allenamento per le mani derivate dalle arti marziali, diventando un vero e proprio “animale” nel senso più buono ma anche più selvaggio del termine.

Donald ha completamente ridisegnato il ruolo del defensive tackle o dell’interior defensive lineman, rendendolo un giocatore chiave della linea di difesa, invece che un saccone da allenamento come spesso era negli anni prima di lui. Donald ha costretto gli offensive coordinator a modificare i loro playbook per contrastarlo e limitarlo, che di fermarlo non c’era proprio verso, finchè no si è iniziato a ricorrere al raddoppio sistematico ed a volte anche al terzo offensive lineman in aiuto. Così Donald è diventato fondamentale anche quando in partita non riusciva a mettere a referto nemmeno un assist, perchè l’attacco dedicato a fermare lui apriva inesorabilmente ampi spazi per gli altri componenti del front seven, elevando ad autentici protagonisti giocatori che, usciti dall’ecosistema Donald, tornavano ad essere dei buoni giocatori e nulla più (Greg Gaines, Dante Fowler Jr., per citarne solo un paio).

Che Donald avesse raggiunto l’apice della carriera lo si era capito dopo la vittoria nel Super Bowl. Il ritmo di allenamento necessario per mantenere la macchina oliata alla perfezione esigeva (ed esige tuttora) rinunce e sacrifici che, ovviamente, sono sempre meno sopportabili, e Donald aveva dichiarato di volersi dedicare alla famiglia ed ai figli che stava trascurando troppo.

Poi il “patto dei quattro” (Donald, Stafford, Kupp e McVay), oltre ad un sostanzioso rinnovo di contratto, aveva fatto sì che il numero 99 tornasse in campo per la sfortunata stagione 2022, in cui subì l’infortunio più importante della carriera obbligandolo a saltare il finale di stagione. Andarsene di scena con un infortunio e la peggiore stagione di sempre (pur condita da un All-Pro, comunque), non era certo nelle corde di un giocatore del genere, per cui giocare anche la stagione 2023 era diventato un obbligo, ed è stato un canto del cigno molto più che dignitoso.

L’ultima mossa è stata la ristrutturazione del contratto perchè fosse più “cap friendly” quest’anno, che ha preceduto di qualche ora l’annuncio del ritiro.

Possibilità che ci ripensi? Beh, non è da escludere, ma ci sorprenderebbe assai, a dire il vero. Se così sarà, ne saremmo ovviamente felici, ma per il momento l’appuntamento è per l’agosto del 2029 a Canton, quando gli verrà consegnata la giacca oro, perchè se c’è una cosa che è assolutamente fuori discussione è che Aaron Donald entrerà nella Hall of Fame al primo anno di eleggibilità.

I commenti sono chiusi.